ESTRANEI
di Andrew Haigh
Un viaggio nell’invisibile. Nei sensi di colpa. Nella memoria, impalpabile. Potente. Commovente. Poetico.
Così narra il sorprendente libro del 1987, bestseller del giapponese Yamada Taichi, rivisitato nel film, al maschile, di Andrew Haigh, Estranei.
Raccontando il tormento interiore per la perdita dei genitori e la scoperta della sua omosessualità, Adam cerca una riappacificazione con sé stesso, la famiglia e il mondo, attraverso la conoscenza di Harry. Il primo, interpretato magicamente, intensamente da Andrew Scott, la sua performance segna vette ineguagliabili, toccanti. Anche solo per lo sguardo che è ricolmo di compassione, insicurezza, labilità emotiva e dolcezza, traghettata da un sorriso ineguagliabile, per osmosi col prossimo.
Andrew Haigh si conferma un sublime, perplimente bardo nell’economia dei sentimenti. Attuando una rivisitazione spettrale, fantasmagorica dei protagonisti scomparsi e un fluttuante, reciproco, esaustivo amore verso se stesso, i genitori e il prossimo, egli conduce il fruitore in un viaggio psicologico, dotato di una narrazione mai banale, bipolare e autentica. La ricerca è volta a risanare, rievocare, colmare il passato.
Grazie a una regia mista, onirica, inafferrabile o reale e paludosa, ammorbata da una fotografia lattiginosa, opalescente, il tuffo nel visivo degli anni 90 è perfetto. Cosi come la confusione ingenerata e quel senso di perdita di fuoco che in inglese si definirebbe blurred. Chi di noi non lo ha vissuto quel tentativo imberbe di restaurazione e rimpianto? Ecco il film è anche una restaurazione, celebrazione di passati sfuggiti di mano. Da ritoccare. Come fossero una foto in digitale mal riuscita.
Estranei è poi un film imponderabile. Arroccato sul dolore della perdita, lo sconfinamento delle barriere della solitudine, i sensi di colpa del rifiuto, dell’allontanamento in cui, il rapporto tra pensiero, realtà, identità si smarrisce sempre più. Insomma un piccolo grande capolavoro nel cui svolgimento l’alterità delle emozioni, l’io – non io, predominano nel ping – pong tra società e individuo, tra interno/ coscienza, esterno /percezione altrui.
Le musiche sono una chicca a sè. Scelte con cura maniacale nell’innalzare quel senso di rammarico già sollevato dal film, fanno viaggiare su binari dell’eleganza del ricordo, del cosidetto tuffo al cuore. Tra di esse, che si ascoltano con la stessa nostalgia con cui Proust mangerebbe una Madeleine, ci sono l’indimenticata You are always on my mind dei Pet shop boys, poi Death a party dei Blur e The Power of Love di Frankie Goes to Hollywood. La loro perfezione è dovuta anche alla perfetto fitting con i temi esploranti in quel preciso momento visivo, tale per cui al Music Editor facciamo un applauso di ringraziamento. Esse riportano dalla storia personale alla società che fu. Riescono a smarrire anche noi in quello che ad oggi ci sembra davvero un passato e un mondo migliore. Quello degli anni 90.
Gaia Serena Siminiati